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Nel regno della tirannia arcobaleno: il martirio del prof. Bassani

Aggiornamento: 6 apr

Il professor Bassani ha lasciato dopo 25 anni il suo incarico di professore ordinario presso l’Università degli Studi di Milano, per una nuova cattedra altrove. Lo ha fatto sbattendo la porta, a quasi tre anni dalla sospensione inflittagli dall’Ateneo milanese per aver “memato” su

Kamala Harris. Il professore aveva infatti condiviso una vignetta che descriveva il vicepresidente americano come una cenerentola capace di scalare i ranghi sociali (in questo caso politici) grazie alla relazione con l’uomo giusto: l’allora sindaco democratico di San Francisco, di

trent’anni più anziano.





Al successivo ricorso di Bassani, il tribunale amministrativo ha risposto un secco no: il meme è sessista (“offende tutte le donne”) e quindi danneggia l’immagine dell’Università! Inammissibile dunque, per un docente universitario, ironizzare sul proprio profilo Facebook privato su un fenomeno accademicamente studiato (il rapporto tra sesso e potere) prendendo di mira i potenti di questo emisfero del mondo.


Se il bersaglio della vignetta fosse stato il vice presidente di un paese “canaglia”, secondo la classificazione occidentale, se fosse stato un uomo, oppure se fosse stato di destra, si sarebbe adottata una simile punizione? Domanda alla quale siamo tentati di rispondere di no. Ma non è tanto questa la riflessione che vogliamo fare sulla vicenda Bassani.


C’è un problema di fondo con le Università, e lo sappiamo tutti. Le hanno colonizzate forze ostili a noi. Ma attenzione, intendendo però l’avanguardia, non come un manipolo di coraggiosi esploratori, che in virtù della loro traboccante voglia di libertà, aprono nuove strade. Sarebbe riduttivo e non realistico pensare che il potere universitario abbia solo questo aspetto oggi. E basterebbe guardare in faccia i rettori delle università italiane per accorgersi del limite di questo mito della destra. I vecchi kompagni, infatti, ancora falce e martello, con l’unità sotto braccio, non avrebbero, da soli, la massa critica per trasformare l’Università nel loro regime totalitario.


Secondo me, è oltre il facile spettro del vecchio comunismo che dobbiamo guardare: è in mezzo al liberalume progressista e conformista che si trova il bandolo della matassa. Ma soprattutto

nell’essenza stessa dell’accademia, come ambiente sociale. L’Università infatti è per sua natura avanguardia. Attenzione però, l’avanguardia non è il manipolo di coraggiosi esploratori, che anche per libertà di spirito tracciano nuove strade; bensì quell’unità che avanza per prima su una strada già tracciata, semplicemente “spianandola” (dai nemici) per il resto dell’esercito. Con questa immagine penso che si colga il ruolo dell’Accademia nella nostra società; che, come tutte le società storiche e possibili, se non vive un elevato grado di conflitto è perché si basa su un sistema di valori e convenzioni condivisi e su un ordinamento di poteri accettato. Orbene l’Università evidentemente aderisce a quel sistema. Non mi risulta infatti che esista un vistoso conflitto valoriale o autonomistico tra le università e gli altri poteri del nostro mondo. Quanto sarebbe ridicolo anche solo pensare ad un conflitto in corso tra università e stato, o tra università e media, vista anche la vera e propria commistione degli attori. Dunque proprio all’interno di un sistema precostituito (la strada tracciata) ci si muove in accademia.


L’avanguardia è allora semplicemente quella che, di fronte alle nuove istanze che si presentano al sistema, immediatamente si incarica di studiarle con rigore scientifico e perciò radicalismo delle conclusioni, al fine di sgravare il resto della società dall’onere di interpretare il disordine empirico che esse ci costringono a interrogare. Chiunque abbia frequentato una qualsiasi classe di una materia afferente alle scienze sociali, avrà percepito nelle parole dei docenti quell’orgoglio di essere gli unici a saper interpretare e studiare la realtà sociale evitando le distorsioni cognitive (bias) e al di fuori delle percezioni convenzionali (frame) che inquinano la comprensione della moltitudine.


Ricordiamo poi, che è grazie alla ragione - orgoglio degli uomini di scienza - e spesso addirittura in suo nome, che la modernità ha prodotto i suoi più gravi fenomeni tirannici e disumani. E così arriviamo al politicamente corretto. Esso non è altro che un prodotto dell’ideologia dominante in Occidente: nata dell’incesto tra liberalismo e marxismo; posizione di accordo tra i poteri economici e culturali del nostro tempo. E proprio per questa sua sponsorizzazione del sistema di potere vigente, rende ovvio che negli atenei essa trovi le sue più compiute teorizzazioni e coerenti applicazioni.


Prima ancora di scomodare momenti dispotici come quello di Bassani e in generale tutte quelle vicende episodiche che ancora fanno scalpore (e ciò significa che non sono totalmente normalizzate) guardiamo a ciò che non fa più notizia, ma che è ugualmente un prodotto di un potere discriminatorio. Guardiamo per esempio all’introduzione del genere neutro nelle comunicazioni. Tra tutte le pubbliche amministrazioni, solo l’università lo ha adottato come

regola inderogabile, probabilmente non scritta, ma ugualmente ineludibile per docenti, impiegati e rappresentanti degli studenti che si apprestano a scrivere una comunicazione pubblica. E non mi riferisco solo alla “ə”, che per adesso è solo dei più coerenti avanguardisti, ma anche all’ugualmente omologato “ragazze e ragazzi” (rigorosamente in quest’ordine) che significa comunque arrendevolezza a un’istanza progressista tesa ad alterare la grammatica italiana per questioni ideologiche (quando questa prevederebbe il maschile universale, comprendente gli appartenenti ad ambo i sessi).


Se oggi accetti supinamente il “ragazze e ragazzi” è solo questione di tempo, prima

che l’incedere dell’avanguardia non renda moralmente imperativo il “ragazz*” e poi ancora il “ragazzə”. Dove vogliamo andare allora? Quale proposito possiamo darci come forza politica? A mio parere lo stesso che vale per altri campi del sapere e della cultura. Dobbiamo saper uscire, come area politica, dal provincialismo da bottegai secondo il quale queste istituzioni, che

condividono con il mondo dell’informazione il preziosissimo e, come abbiamo visto, dispotico, monopolio della descrizione della realtà, devono essere considerate di serie B rispetto a quelle che cerchiamo di corteggiare (le piccole-medie imprese) o colonizzare (gli organi politici).

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