Tu sei una fortezza inespugnabile, una sacra vetta, un nobile nome
(dall’inno della Repubblica dell’Artsakh)
Per decreto del suo presidente, Samvel Shakhramanián, la Repubblica dell’Artsakh e tutte le sue istituzioni cessano di esistere entro la fine dell’anno. Questo piccolo stato, autoproclamatosi indipendente dall’Azerbaijan nel 1992, è abitato storicamente da una larga maggioranza armena e cristiana, che ha resistito, seppur riducendosi per espansione, ai secoli di dominazioni straniere.
La piccola Repubblica caucasica era già stata attaccata dagli azeri nel 2020, perdendo buona parte del suo territorio e venendo quasi accerchiata, con l’esclusione dello stretto corridoio di Lachin, che la collegava ancora alla Repubblica Armena. Da inizio anno però era stata stretta in un nuovo terribile assedio, con il blocco del corridoio montano e il completo isolamento, che ha anche portato alla scarsità di tutti i prodotti importati, cibo e medicinali inclusi. Finché il 19 settembre gli Azeri hanno iniziato “un’operazione speciale anti-terrorismo”, avanzando con i carri appoggiati dalla schiacciante superiorità aerea. A quel punto, il piccolo stato dell’Artsakh, completamente isolato, abbandonato da tutti e anche dall’impotente “madre”, la Repubblica dell’Armenia, è capitolato.
Immediatamente decine di migliaia di persone hanno abbandonato le loro case e i loro averi, affollando con le proprie automobili, le impervie strade di montagna che conducono dal Nagorno Karabakh verso la frontiera armena, sotto lo sguardo soddisfatto dei soldati nemici. Tutti ricordano che in passato tra le parti si è fatto ricorso senza remore alla pulizia etnica. Tutti sono stati educati alla fierezza di appartenere ad un popolo e a odiare il nemico di sempre. Sono centoventimila gli armeni che risiedono nel Nagorno Karabakh e pare che già quasi centomila abbiano passato il confine per raggiungere i connazionali. Ci sono video della capitale Step’Anakert che sembra ormai una città fantasma.
Queste scene non possono che ricordarci l’Esodo Giuliano Dalmata: di quegli Italiani che dal 1945 lasciarono le loro terre cadute sotto la Jugoslavia di Tito per ritrovare dignità, sicurezza e libertà nella Penisola. Anche qui assistiamo alla grande tragedia dello sradicamento di un popolo. Un territorio, che, se la storia non vorrà tornare sui suoi passi, sarà ricordato per ciò che era solo come un museo archeologico. Guarderemo ai resti dei monasteri cristiani del Karabakh come oggi vediamo le rovine bizantine di Istanbul o quelle greche di Efeso.
Perché l’Armenia non è intervenuta per salvare la sua repubblica-figlia, come aveva fatto nel 2020?
Semplicemente perché l’Armenia, da sola, può solo uscire sconfitta in una guerra con l’Azerbaijan. Quest’ultimo, rispetto alle condizioni nelle quali versava negli anni ‘90, quando fu battuto dagli Armeni, ha visto crescere la propria economia grazie all’esportazione del gas naturale e con i proventi ha rinforzato temibilmente le forze armate. Ad appoggiare il paese ci sono poi la Turchia, con la quale condivide l’origine etnica e la religione, e Israele, che invece mira principalmente a contenere l’Iran nella regione. Entrambi i paesi hanno venduto agli azeri le armi che hanno loro permesso di vincere la guerra del 2020 e di spaventare gli Armeni al punto da fargli deporre oggi le armi: i droni armati.
E chi fino adesso proteggeva gli Armeni?
La Russia è tradizionalmente la potenza che ha protetto gli Armeni dai Turchi (Azeri inclusi). Anche nel 2020, l’invasione era stata interrotta dall’intervento di Mosca, che aveva deciso di portare duemila soldati a fare da cuscinetto tra le parti. La Russia ultimamente ha avuto altre questioni a cui pensare e si è disimpegnata nella regione. A catena, l’Armenia si è sentita abbandonata dal suo alleato e si è rivolta agli Stati Uniti. In questo momento particolare in cui l’Armenia è amica sia della Russia (sempre meno) sia degli Stati Uniti (sempre di più) ma nel quale nessuno dei due è disposto a difenderla l’Azerbaijan ha trovato il tempo propizio per il colpo di mano e ha vinto.
E mentre gli Armeni sanguinano, piangono, lottano, il mondo rimane a guardare, inerme, inutile. Si copre leggermente gli occhi con la mano e sposta lo sguardo altrove, dove l’atrocità è più conveniente.
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